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Il gioco della tastiera




La mattina del 29 ottobre 1989 ci riservò un'esperienza musicale entusiasmante ed inquietante in una.
Da tempo - ovviamente - si sapeva dello straordinario talento
di Andrea Bacchetti, pianista genovese in allora neppure dodicenne che aveva fatto incetta di affermazioni in competizioni giovanili, nazionali e internazionali e che - soprattutto - aveva "sorpreso" Herbert von Karajan e stava calamitando l'interesse di Luciano Berio.


di CLAUDIO TEMPO

Quella mattina, nell'Oratorio di San Filippo, sede dell'attività domenicale de "I Cameristi" diretti da Nevio Zanardi (benemerita iniziativa che si dissolse per latitanza di sostegni),  Andrea Bacchetti  affrontò il Concerto K41 e il Concerto-Rondò K 386 di Mozart.
Ebbene: un ragazzino tanto minuscolo da giungere a fatica ai pedali, quasi "sovrastato" dai suoi grandi occhiali e proteso verso la tastiera quasi con "avidità", dispensò limpidezza di pensiero musicale, di cure espressive e di risorse realizzative con una spontaneità più incredibile che eccezionale.
Ci si senti rasserenare quando, al termine del concerto, proprio da lui si apprese che aveva fretta di tornare a casa perché, nel pomeriggio, doveva partecipare ad una partita di calcio. Come un dodicenne qualsiasi.
Oggi Andrea Bacchetti, nato in un verdeggiante paesino del Genovesato, ha 27 anni. La sua formazione come pianista si è avviata a Genova, ed è proseguita - più propriamente come "musicista" - sotto la guida di Luciano Berio «al quale devo la scoperta delle ragioni dell'avanguardia e di un modo inflessibilmente razionale di indagare la creatività musicale», quindi a Lucerna, con Rudolf Baumgartner che «mi ha comunicato la gioia della musica vissuta come libertà» e infine, alla Scuola di Imola, con Franco Scala «che mi ha insegnato ad essere, fino in fondo e solo, me stesso».
Un'esuberante collezione di "borse di studio" (tra le quali quelle della Yamaha Music Foundation di Londra, del Mozarteum di Salisburgo e del Conservatorio Nazionale Superiore di Parigi) e di prestigiose ammirazioni (oltre ai plausi già citati, si menzionano, perché particolarmente cari a Bacchetti, quelli di Magaloff e Horszowski) ricorda il suo folgorante avvio; un voluminoso curriculum di successi, inanellati nei festivals europei più risonanti e in teatri e sale sale da concerto di mezzo mondo, testimonia che le precoci promesse hanno avuto corso. Infine, il versante discografico: considerato da Luciano Berio interprete di livello assoluto della propria musica, tra i sei compact realizzati da Bacchetti (che con il compact mendelssohniano proposto da Amadeus diventano sette) spicca quello Decca dedicato, appunto, all'opera pianistica di Berio.
Di tutto ciò e di altro, tutti i particolari sul sito internet di Andrea Bacchetti. Ma non la risposta a curiosità che da quella domenica di quindici anni fa, di tanto in tanto, fanno capolino...

Come visse Andrea Bacchetti la sua condizione di "bambino prodigio" e come rimedita, ora, il suo vezzeggiato "passato"?
«Credo che per tutti i bambini il "prodigio più prodigioso" sia il gioco. Certo, un qualche compiacimento nel vedere riconosciuta la propria abilità come "giocatore" si deve mettere in conto, ma - che io ricordi - ciò che veramente mi importava era che il gioco da me preferito, fare musica, riuscisse. Sapevo di essere bravo nel rispettare le regole necessarie al prodursi del "prodigio", ma non trovavo nulla di "prodigioso" nel fare ciò.
E, sinceramente, non credo che quel mio atteggiamento "infantile" sia mutato in seguito, con il progressivo precisarsi e moltiplicarsi dei problemi che competono alla responsabilità di un interprete. Tutt'ora, per me, non v'è altro "prodigio" se non la musica, e tutt'ora sento che quanto mi riesce di "dare" alla musica in realtà è un dono che la musica fa a me. Un mutamento, però, ho dovuto registrarlo: l'ammirazione degli altri, con il passare degli anni, si è volta in una sorta di sospetto. Come se chi è ritenuto "bambino prodigio" non possa essere altro che un "bambino prodigio". Là dove anagraficamente finisce il bambino, là finisce ogni attesa di "prodigio". L'anagrafe di un pianista è indifferente alla musica, che infatti continua, ma per l'ex-prodigio c'è un "da capo" in più».

Veniamo a Mendelssohn...
«... autore "meraviglioso" nel senso esatto del termine, la cui serena genialìtà schiude alla sensibilità e all'intelletto temi d'arte e di poesia sorprendenti, assai più complessi e sottili di quanto normalmente non si ritenga. Autore che continuo ad approfondire, e il crescente appagamento morale che provo credo di poterlo spiegare con l'affinità elettiva che lega il mio modo di "sentire" la musica - cioè: emozione liberata attraverso la razionalità, moti dell'anima perseguiti attraverso il rigore costruttivo - al singolare romanticismo di Mendelssohn. Intenso, vivido, vigile nell'accogliere gli stimoli di un'epoca eppure "a sé": trasparenza spirituale, limpidezza di pensiero e lucida coscienza d'arte lo preservano da ogni enfasi irriflessa, da ogni scalpito del demoniaco, da ogni turbamento irrazionale».

Al momento, Bacchetti ha in repertorio solo la produzione mendelssohniana per pianoforte e orchestra, comprese pagine di rarissima esecuzione come Serenade und Allegro op. 43, Capriccio brillante op. 22 e Rondò brillante op. 29. C'è un motivo perché abbia incominciato da qui l'avventura mendelssohniana che certamente l'attende?
«Forse l'emblematicità di queste opere. Infatti, a parer mio, la musica pianistica di Mendelssohn ha dovuto e deve vedersela con un fraintendimento. Siccome Mendelssohn era un pianista brillantissimo (Clara Schumann lo considerava un "virtuoso" superiore a Liszt), è parso coerente leggerne l'opera pianistica, e in particolare - appunto - le opere per pianoforte e orchestra, in chiave esibitoria. Si è trascurato di sondare fino a che punto la nitida effervescenza della scrittura mendelssohniana non racchiuda precise intenzioni poetiche, sicché risolverla in esultanza esecutiva significa irrigidirne il senso e trascurare i lieviti romantici che rendono magici anche gli accenti più leggiadri dell'immaginazione di Mendelssohn. Pur tenendo in conto abbaglianti "precedenti" quali - ad esempio - le esecuzioni di Serkin, Perahia e Schiff, io ho, allora, ritenuto di allontanarmi da un'impostazione virtuosistica, ho adottato tempi meno veloci e più adeguati al formularsi di intime vibrazioni, ho riconsiderato queste opere, ritenute ottime e abbondanti per le dita, in modo strutturalmente ed espressivamente più articolato. Mi sembra che, così, acquisiscano una fisionomia tutt'altra».

Cioè, giusto per esemplificare?
«L'introduzione idilliaca e l'irrompere inatteso della marcia, autentico coup de theatre, se drammaturgicamente gestiti, donano al vitalismo del Capriccio un respiro fantastico che ne dilata l'apparente frivolezza e la trasfigura. Quanto a Rondò: dal dialogo d'avvio tra pianoforte, fanfara di ottoni e poi orchestra si destano tratti drammatici e immagini notturne che fanno del calligrafismo "concertante" uno scrigno di arcane risonanze; poi - a cuore della composizione - pulsa un fugato di impressionante arditezza elaborativa, un culmine splendente di maestria, e da esso trae slancio il pirotecnico precipitare del finale. Quanto a Serenade und Allegro: Serenade è in sé un capolavoro. Cinque minuti di intensità inaudita, irrorata da flessuosità armoniche altrettanto inaudite. Stupore d'obbligo».

Resta il Concerto n. 1, opera più nota ...
«Mi dichiaro incantato soprattutto dall'arcadica delicatezza del secondo movimento. Vi aleggia un sorriso che ne eleva al quadrato l'evidente "classicità", si da consegnarla a una sensibilità di nuovo conio, assolutamente mendelssohniana, cioè tesa ad armonizzare le lezioni della storia e a comporne le specificità in superiore emozione intellettuale».

Niente "fratture", insomma. Il che, in fondo, è quanto costò a Mendelssohn l'irrisione di Wagner e di Debussy (che lo definì "un notaio elegante") ...
«Anche Berio accusava Mendelssohn d'essere un romantico poco coraggioso, un "minore". In compenso Goethe scorgeva in lui un Mozart del nuovo secolo, e questa - con l'ammirazione "in diretta" di Schumann, analoga nel tenore - è una prospettiva comunque affascinante se si riflette sulla singolarità romantica di Mendelssohn».




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