«Questa mirabile opera si compone di trenta variazioni, tra cui ci sono canoni in tutti gli
intervalli e movimenti, dall'unisono alla nona, con la melodia sempre limpidissima e scorrevolissima. Vi si trova anche una
regolare fuga a 4 voci e, oltre a molte altre brillantissime variazioni per due manuali, alla fine ancora un cosiddetto quodlibet,
che basterebbe da solo a rendere immortale il suo autore, pur non rappresentando affatto la parte precipua dell'opera. Per
queste variazioni che dovrebbero servire da modello a tutte le variazioni del mondo - benché per ovvie ragioni la cosa non sia
stata tentata ancora da nessuno - siamo debitori al conte Kayserlingk, già ambasciatore russo alla corte dell'Elettore di Sassonia.
Egli soggiornava sovente a Lipsia, portando con sé il già menzionato Goldberg per fargli impartire lezioni di musica da Bach. Il
conte, di salute assai cagionevole, soffriva spesso d'insonnia.
Goldberg, che viveva nella casa dell'ambasciatore, doveva in questi
frangenti passare la notte in una camera accanto alla sua per suonargli qualche pezzo, quando il conte non riusciva a dormire. Un
giorno, quest'ultimo disse a Bach che avrebbe desiderato tanto avere per il suo Goldberg qualche brano per clavicembalo, calmo,
ma nello stesso tempo anche piuttosto gaio, per rasserenare le sue notti senza riposo. Per esaudire tale desiderio, Bach pensò
che la forma di variazioni sarebbe stata la più adatta. Fino allora egli aveva ritenuto questo tipo di composizione piuttosto
ingrato a causa dell'armonia di base sempre uguale; ma sotto le sue mani anch'esse diventarono capolavori e prototipi d'arte,
come tutta la sua produzione di quell'epoca.
L'opera è l'unico esempio del suo genere. In seguito il conte le chiamò le "sue"
variazioni. Non si stancò mai di ascoltarle e per lunghi anni, durante le notti insonni, soleva dire a Goldberg: "Caro, suonami
una delle mie variazioni, te ne prego". Mai, credo, Bach ha ricevuto un compenso più generoso per qualsiasi altro suo lavoro:
il conte gli fece dono di un calice d'oro riempito con cento luigi d'oro; ma se anche il regalo fosse stato mille volte più grande,
il vero valore di quest'opera d'arte non sarebbe stato mai pagato adeguatamente».
Così racconta - nella traduzione italiana di Lily S. Sternbach - Johann Nikolaus Forkel, autore della prima biografia bachiana
uscita nel 1802 col titolo Über Johann Sebastian Bachs Leben, Kunst und Kunstwerke. Da questa celebre pagina - vero e proprio
paradigma della sterminata letteratura aneddotica che adorna e insieme infesta la storiografia della musica occidentale - prendono
origine il titolo e l'aura delle cosiddette Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, composizione che l'autore certamente non
chiamò mai in questo modo, pubblicandola invece a Nürnberg nel 1741 o 1742, presso l'editore Balthasar Schmid, col titolo Aria
mit verschiedenen Veränderungen, ossia Aria con alcune variazioni.
L'aneddoto ci appare paradigmatico per una doppia ragione. Prima di tutto, in quanto esso è quasi sicuramente falso. Le fonti di
Forkel furono come egli stesso dichiara i due figli maggiori di Bach, in particolare Carl Philipp Emanuel. Tralasciando gli svariati
riscontri e considerazioni che tendono a smentire la narrazione di Forkel, ci si può limitare a riportarne un paio. Il fatto che,
ad esempio, l'edizione non riporti alcuna dedica al conte Hermann Carl von Keyserlingk, dedica che, all'epoca, più che una consuetudine,
era un obbligo sociale. Inoltre si ritiene generalmente che Johann Gottlieb Goldberg fosse troppo giovane - neppure quattordicenne -
per padroneggiare una composizione di tale complessità.
Eppure, per altro verso, l'aneddoto è paradigmatico in quanto, sebbene scarsamente verosimile, racchiude se non una veridicità,
quantomeno una sottile plausibilità di ordine squisitamente musicale. E' singolare infatti che la storiella del conte insonne, vuoi
per i suoi malanni, vuoi per il suo umore melanconico, si sposi a uno dei rari esempi - forse il più grandioso, di certo il più famoso
- di variazioni su basso ostinato lasciateci da Bach. Come scrive lo stesso Forkel: «Bach pensò che la forma di variazioni
sarebbe stata la più adatta». Non sappiamo, né sapremo mai se si tratti di una congettura sua (acuta, per altro) o delle sue
fonti, oppure se fu lo stesso Bach a decidere quale forma dare a una musica concepita in funzione sedativa.
Resta il fatto significativo che il costrutto formale delle Variazioni Goldberg corrisponde in buona sostanza a quello delle musiche
che da tempi immemorabili e fino a oggi - nelle corti, nelle campagne o nelle discoteche, in Europa come altrove - accompagnano per
l'appunto i momenti della veglia notturna. Momenti per lo più collettivi, dilatati nel tempo, a volte interminabili, in cui la musica
sostiene danze, canti, cerimonie religiose, rituali magici, sciamanici, fachiristici, metropolitani; favorisce emozione, devozione,
meditazione, catarsi, ebbrezza, visioni, estasi, trance, stati di coscienza modificati. E' un terreno che l'etnomusicologia,
l'antropologia, la musicoterapia odierne conoscono bene e che anche nell'antichità era familiare ai tanti che si occuparono degli
effetti della musica sulla psiche, o come si diceva allora, sull'animo umano.
Il conte Keyserlingk e la sua melancolia notturna, curata al suono di quell'Aria con trenta variazioni, non sono dunque che una tappa
di una tradizione antichissima che da Orfeo e Pitagora, dai tarantati del Mediterraneo e dal samâ' (l'ascolto estatico del sufismo),
si snoda fino all'arpista del Wilhelm Meister di Goethe, arrivando fino ai rave parties e alla musica trance-ambient. E' una tradizione
estetica e terapeutica insieme, che considera la musica come un medicamento potente e privilegiato, efficace sul corpo e sull'anima.
Anche se, come scriveva nell'XI secolo il grande teorico arabo Abû Hâmid al-Ghazâlî, il come la musica agisce sull'uomo «è un
segreto che appartiene all'Altissimo».
Quasi mille anni dopo Ghazâlî, nonostante gli studi di Gilbert Rouget, Ernesto De Martino, Michel Imberty, George Lapassade e molti
altri, la faccenda, almeno in parte, sta ancora in questi termini. Etnologi, psicologi, sociologi, fisiologi hanno percorso il mondo
in lungo e in largo, mettendo sotto osservazione, interrogando e testando migliaia e migliaia di soggetti. La mole di dati a nostra
disposizione, ricavati empiricamente con le metodologie scientifiche più rigorose, è impressionante. Se non le risposte definitive,
quantomeno queste osservazioni testimoniano con dovizia il ricorrere di alcuni meccanismi ben individuati. Uno di questi è la
ripetizione, l'ostinato, ossia quel fondamento retorico e architettonico presente nelle Variazioni Goldberg come nella quasi totalità
delle musiche adibite (specie nelle culture di tradizione orale) a svolgere una concreta azione sulla psiche, sia essa un'azione
psicotropa, anestetica o iperestesica.L'idea di un effetto catartico, sedativo di un malessere atrabiliare e solipsistico, cui fa da innesco la veglia notturna, viene
dunque associata da Bach, Forkel o chi per essi, a un ostinato o per essere più precisi a delle variazioni su un basso ostinato,
ripetibili a piacere grazie alla loro perfetta miscela di monotonia e varietà, sorprese stimolanti e certezze tranquillanti: «Caro,
suonami una delle mie variazioni, te ne prego», diceva a Goldberg il conte che mai si stancava di ascoltarle, traendone ogni
volta sollievo alle sue pene. Il fascino enigmatico di questo aneddoto tanto storicamente infondato, quanto musicalmente intrigante,
risiede proprio nella squisita pertinenza e attualità - quasi fosse formulata da un etnomusicologo del XX secolo - di questo associare
la ripetizione, ossia un meccanismo di intensificazione percettiva, all'efficacia e quindi alla guarigione.
Leggiamo ancora in Forkel: «Fino allora egli [Bach] aveva ritenuto questo tipo di composizione piuttosto ingrato a causa dell'armonia
di base sempre uguale». E' una congettura di Forkel, motivata dal fatto che in passato solo raramente Bach era ricorso all'ostinato,
sebbene con risultati strepitosi (si pensi alla Ciaccona della Partita n. 2 per violino solo, oppure alla Passacaglia in do minore
per organo). L'osservazione consente a Forkel di ribadire l'elogio bachiano, sottolineandone la maestria nel trarre un capolavoro da
una materia giudicata bruta, volgare, la stessa che sta alla base delle danze e delle musiche cui il popolo ama abbandonarsi per
dimenticare nell'orgia il patimento del vivere: «i riti bacchici e altri dello stesso genere, scrive Quintiliano, hanno a che
fare con la ragione, in quanto purificano nelle persone incolte l'angoscia di fronte alla vita e alla sorte grazie alle melodie, le
danze e i divertimenti che esse comportano». «La struttura musicale», osserva Diego Carpitella a proposito della
pizzica tarantata, «è caratterizzata da: iterazione ritmica ossessiva (ostinato) con varianti melodiche di carattere rapsodico».
Di fronte a tutto ciò l'intelletto dell'uomo coltivato conserva più di una remora. La stessa remora che in campo musicale, da secoli,
contrappone il pensiero elaborativo, lo sviluppo ipotattico proprio del contrappunto e in genere della musica dotta, ai costrutti
paratattici, alle iterazioni variate, in apparenza elementari, proprie della musica "volgare" di ieri e di oggi, inclusa
la più recente musica da discoteca, la techno, il drum & bass che, col loro corredo di pasticche, mirano allo sballo, alla
provvisoria cancellazione dell'angoscia, all'exstasis, versione chimica e tecnologica della catarsi. Per inciso, non si può fare
a meno di ricordare il fatto che la sentenza di condanna stilata dall'odierna musica accademica nei confronti della musica di consumo
si regge proprio sull'incrollabile convinzione circa la sua povertà sintattica.
Fra le righe di Forkel (che forse non a caso nella sua biografia bachiana non fa menzione né della Ciaccona, né della Passacaglia),
questa riserva, questa sottile faziosità, traspaiono, così che la scelta di Bach viene ricondotta a un atto di ossequio verso il suo
nobile committente, per soddisfarne un bisogno privato, quasi inconfessabile: musica da consumare al chiuso, la notte, al riparo da
sguardi indiscreti.
Eppure è lo stesso compositore che, nel pubblicare l'opera, la accompagna con un sottotitolo che dichiara apertamente la sua vocazione
all'intrattenimento: Aria [...] Denen Liebhabern zur Gemüths-Ergetzung verfertiget: Aria composta per allietare l'animo degli intenditori.
Nessun problema per Bach, nel definire queste Variazioni come musica leggera, nata per infondere buonumore e, perché no, scacciare i
fantasmi di una veglia insonne.
In realtà, a differenza delle musiche rituali, indirizzate alla collettività - dal candomblé, alla tarantella, alla techno-trance -
le Variazioni Goldberg assolvono a un rituale privato, si indirizzano all'individuo. Ma anch'esse, a quanto pare, determinano una sorta
di possessione, fungono da "divisa musicale", evocano cioè la divinità, il genio che vi è racchiuso: "l'io delle
Goldberg" come lo chiama Glenn Gould. Il conte Keyserlingk era posseduto da esse; Gould, artista votato ai turbamenti d'animo, pure.
Al punto che la sua parabola di interprete si svolge, in pratica, fra i due grandi pilastri costituiti dalle due memorabili registrazioni
delle Variazioni bachiane. Gould ci appare come posseduto dalle Goldberg, e noi attraverso lui. Posseduto in quanto quella registrazione
giovanile del 1955 nella sua venerazione smitizzante sembra contenere la cifra iperumana di tutta la storia interpretativa del pianista,
leggibile come una lunga attesa del ritorno finale: le seconde Variazioni registrate nel 1981.
Con ogni probabilità, chiunque possieda una copia delle Goldberg, suonate da Gould o da qualche altro grande interprete, conosce
quell'impulso che spinge a rimettere il disco un'altra volta, e ancora un'altra, cullati, consolati, posseduti da questa musica che,
secondo le parole del pianista canadese, "non conosce né inizio, né fine". E' ciò che accade a Ester ne Il silenzio di Ingmar
Bergman, quando oppressa dalla malattia, nell'oscurità della sua stanza, consuma la sua veglia come il conte Keyserlingk, ascoltando
alla radio il gocciolare lieve e risanatore delle Goldberg. Sembrerebbe, quello di Bergman, un omaggio all'aneddoto e invece è una resa
al carisma invincibile di una musica sciamanica, che ci impone la propria favola e ci tiene incatenati a sè, gli occhi socchiusi e il
cuore ricolmo, in una veglia estatica che dura da più di 250 anni.
Per gentile concessione di Alleo Review (www.alleo.it)