Luciano
Berio ha sempre creduto nelle possibilità espressive dei pianoforte,
tant'è vero che le sue composizioni dedicate allo strumento si trovano
distribuite con regolare continuità per tutto il suo straordinano arco
creativo, dal 1947 (Piccola Suite) sino al 2001 (la Sonata per
pianoforte solo); la sua posizione non deve apparire scontata,
poiché - dopo la grande fioritura romantica - lo strumento principe
della musica da camera ottocentesca non ha goduto di eccessiva fortuna
presso i compositori d'oggi: accanto a Berio, si trovano comunque nomi
illustri (Boulez, Ligeti, Stockhausen, Messiaen, Donatoni, Sciarrino, in
misura minore - sotto l'aspetto quantitativo, non qualitativo - Nono e
Henze), i quali contrastano, per esempio, con la posizione di Giacomo
Manzoni, che ritiene esaurite le possibilità espressive dei pianoforte
(il suo unico pezzo per piano e orchestra, Masse, mette in luce una
scrittura appunto massiccia, percussiva, che tende piuttosto a
evidenziare la natura barbarica, atavica dello strumento).
Del
resto, come ha scritto lo stesso Berio, l'amore per il pianoforte, o
più in generale per gli strumenti a tastiera, lo aveva ereditato dal
nonno Adolfo, suo primo maestro di armonia, formidabile organista,
nonché instancabile compositore di walzer, polke e mazurche (per
pianoforte a quattro mani) dedicate alle .'principesse austriache o alle
regine svedesi" (Berio).
Non
va nemmeno dimenticato che Berio si formò proprio come pianista; aveva
dovuto interrompere gli studi dello strumento per un infortunio alla
mano subito, nel 1944, circostanza che lo risolse a dedicarsi
interamente alla composizione: divenne dunque allievo al Conservatorio
di Milano di Giorgio Federico Ghedini e Giulio Cesare Paribeni. A quegli
anni d'apprendistato risale dunque la Petite Suite per Pianoforte
(1947), che sarebbe stata anche il suo primo pezzo eseguito in
pubblico, lavoro non ancora composto con tecnica seriale e che dunque si
risolve in una maligna parodia di forme di danza barocche, tra le quali
si fa notare una ironica Gavotta, costruita con ampi, volutamente
esagerati intervalli. Come scrive Enzo Restagno, in questa Petite
Suite "gli storici sono concordi nel ravvisarvi influssi di
Ravel, di Prokof'ev e della cultura dei Neoclassicismo. Ci limiteremo a
dedurne la non comune capacità di assimilazione dell'autore, una
qualità destinata nelle opere future a proliferare e suscitare benefici
conflitti". Effettivamente, Berio avrebbe dimostrato una
particolare dote nell'appropriarsi di stili e musiche altrui, nel
contempo rielaborandoli in modo assolutamente personale: emblematico (e
magnifico) è il caso di Rendering, da Schubert.
Le
Cinque Variazioni (1953), assieme alle due prime Sonate di Boulez,
rappresentano - sulla scia delle Variazioni op. 27 di Webern - un
contributo notevole all'applicazione della scrittura seriale al
pianoforte; il rigido strutturalismo di Boulez, però, viene in Berio
sempre stemperato da un innato lirismo, come scrive François-René
Tranchefort, capace d'evitare ogni aridità espressiva.
Corre
l'anno 1965 quando Berio compone la sua Sequenza IV per Pianoforte:
le Sequenze altro non sono che lavori solistici (che vanno dalla Sequenza
I per Flauto, 1958, sino alIa Sequenza XIV per Violoncello,
del 2002) scritti solitamente per un grande virtuoso dello strumento (ad
esempio, Severino Gazzelloni, Cathy Berberian, Heinz Holliger, Rohan de
Saram, ecc.); alcune Sequenze hanno infine generato la serie degli
Chemins, dove la parte solistica viene arricchita - senza modifiche - di
una parte orchestrale a commento, Vale la pena di riportare
integralmente il breve commento al pezzo scritto dallo stesso
compositore: "Sequenza IV per Pianoforte è da considerarsi
un viaggio di esplorazione attraverso le regioni sconosciute e
conosciute dei colore e dell'articolazione strumentali. Due 'sequenze'
armoniche indipendenti si sviluppano simultaneamente e a volte si
interpenetrano: una reale, affidata alla tastiera e l'altra in un certo
senso 'virtuale', affidata al pedale".
Come
afferma Philippe Albèra, "Il concetto di virtuosismo in Berio [
... ] non è semplice esibizione tecnica, quanto piuttosto stimolo di
nuove possibilità di scrittura ed espressione". Infatti, la Sequenza
IV sottende il concetto di improvvisazione tipico dei jazz
(all'epoca Berio viveva e lavorava negli Stati Uniti) e del resto
l'autore raccomanda di tenere conto di questo fattore (l'improvvisazione
appunto) nell'eseguire il pezzo. Sotto l'aspetto compositivo, la Sequenza
IV mette in contrapposizione due tipi di accordi, il primo basato su
triadi (che possono essere maggiori, minori, eccedenti, ma che vengono
trattate solo in base al colore, non per l'armonia funzionale), il
secondo più difficilmente definibile, basato su gruppi contigui di
suoni che lo fanno assomigliare al cluster. Questa opposizione rimane il
principio generatore dei pezzo per tutta la sua durata; dal primo tipo
di accordi si dipanano anche figurazioni melodiche, che vengono
introdotte progressivamente, interagendo col resto del materiale. Altro
elemento cardine risulta l'uso dei terzo pedale (pedale di risonanza):
come scrive ancora Albèra, "Le strutture armoniche afferrate dal
terzo pedale e mantenute all'ombra delle strutture principali dipendono
da queste ultime, ma hanno una propria evoluzione. Esse creano una
prospettiva e sembrano una specie di commento all'esecuzione normale. [
... ]. In questo modo, Berio non elabora tanto una polifonia di note,
quanto una polifonia di azioni, una sorta di metapolifonia che crea,
indubbiamente, la dimensione gestuale, perfino teatrale,
dell'esecuzione".
Il
medesimo effetto, volto a ottenere molteplici possibili piani d'ascolto,
Berio lo persegue in Rounds (1967), originariamente scritto per
clavicembalo e poi trascritto per pianoforte: prosegue dunque quella
ricerca che prevede l'utilizzo del pedale di risonanza (terzo pedale)
per dare l'idea di una moltiplicazione del materiale originale, che
gioca virtualmente a interpolarsi con le risonanze che si creano: gli
effetti sono imprevedibili e non perfettamente controllabili sulla
carta. Nonostante le miniature rappresentate dai Six Encores
siano state composte in periodi differenti, distanti (tra il 1965 e il
1990), esse costituiscono "prova eloquente della continuità
tecnica che informa l'opera matura di Berio" (D. Osmond-Smith). Il
primo, Wasserklavier, fu composto dopo una conversazione tra
amici, a New York, a proposito dell'interpretazione dell'intermezzo in
si minore di Brahms e della Fantasia in fa minore per pianoforte a
quattro mani di Schubert; ancora una volta, dunque, entra in gioco il
rapporto con la storia della musica. Berio intese il pezzo come commento
musicale alle riflessioni della serata: non a caso la tonalità di fa
minore risulta ben presente lungo tutto l'arco del breve frammento. Erdenklavier
(1969) parte invece da un piccolo gruppo di note, che attira tutte
le altre in un determinato ambito melodico: con un consueto
procedimento, alcune note vengono prolungate per costituire una sorta di
orizzonte sonoro, un "involucro armonico" (Osmond-Smith). Il Luftklavier
(1985) arriva dopo l'esperienza portata a termine con il meraviglioso Concerto
per due pianoforti (1972-73) e con l'altrettanto straordinario Points
on the curve to find ... (1974, che a sua volta darà Iuogo a Echoing
curves, dei 1988, scritto per Daniel Barenboim). Proprio dai
materiali di questi progetti nascono il già citato Luftklavier e
il Feuerklavier, dei 1989 (che concludono un mini-ciclo
all'interno dei Six Encores, quello dedicato agli elementi): dal
semplice ostinato del primo frammento, si passa alle rapide figurazioni
del secondo, che hanno chiaro intento illustrativo. Il ciclo si
conclude, come anticipato, nel 1990 con Brin (esplorazione di un
campo definito di aitezze, ma sempre da eseguirsi "doux et immobile
in pppp") e Leaf, che rivisita le pagine iniziali e finali
della Sequenza IV, mettendo sullo sfondo sonoro però solo un
accordo, sempre tenuto dal pedale di risonanza e interpolato da robusti
accordi staccati di altezza superiore.
Carmelo
Di Gennaro |