Non servono troppe parole per presentare ai lettori di MUSICA il pianista genovese
Andrea Bacchetti, con cui ho avuto un lungo colloquio all'inizio di febbraio. Enfant prodige, pupillo di Luciano
Berio, interprete bachiano fra i più stimolanti della sua generazione, Bacchetti è un uomo timido singolarmente
severo verso se stesso. Ma dalle sue parole, nel suo conversare rapidissimo e coinvolgente, traspare una dedizione
totalizzante alla musica e una acuta coscienza del problema maggiore che oggi attraversa il repertorio classico,
ossia la comunicazione con il pubblico. Anche per questo, forse, Bacchetti ha deciso di partecipare (in molte puntate
andate in onda tra l'autunno del 2010 e la primavera del 2011) al variopinto circo televisivo del «Chiambretti
Night»: in quell'atmosfera, vestito di tutto punto in abito da concerto, Andrea interagiva con gli altri ospiti
di Piero Chiambretti in maniera ora surreale (improbabili duetti con la starlette di turno), ora spiazzante (una Toccata
di Bach che riaffermava il suo valore nel caos sonoro). Non sono mancate le critiche, ovviamente, e proprio da questo
tasto parte la nostra chiacchierata negli uffici milanesi della Sony.
Bacchetti da Chiambretti: una scelta rischiosa?
In verità non si è trattato di una scelta, ma di una serie di favorevoli coincidenze (d'altronde solo per caso un
musicista classico come me poteva entrare con entusiasmo in quella trasmissione) che ho deciso poi di assecondare.
Mi sono trovato molto bene e non me ne sono pentito. Un modo diverso, controcorrente per farmi conoscere, per
avvicinare tanta gente, tanti giovani alla «nostra» musica. Molte persone mi hanno detto di apprezzare
la spontaneità che traspariva da quelle esibizioni televisive di un musicista che riesce a passare dalle Goldberg
di Bach all'accompagnamento di artisti non classici come Ornella Vanoni, Emma, Antonello Venditti.
In tutt'altra atmosfera invece si era svolto il Suo incontro con Karajan nel lontano 1988...
Ero un bambino di undici anni e ne ho un bellissimo ricordo: uomo di poche parole, ma molto incisive. Lo conobbi a
Salisburgo, mi fece dono della borsa di studio (per cinque anni) per frequentare i corsi estivi del Mozarteum.
Un'esperienza di grandissima importanza: ebbi la fortuna di studiare con maestri come Karl-Heinz Kämmerling, Sergei
Dorensky, Andrzej Jasinski e Sergio Perticaroli. Suonai per Karajan la Sonata K333 di Mozart: cantavo a voce alta -
sopra l'esecuzione pianistica - melodie, controcanti, terze. Apprezzò moltissimo. Mi disse «bellissimo»
e che anche lui cantava quando dirigeva, ma solo dentro di sé; e il «cantare dentro» divenne da allora
per me un nuovo modo di fare musica.
Subito dopo mi invitò a una prova dell'Eroica al Festspielhaus, mi fece suonare - con i musicisti dell'orchestra -
un tempo del Concerto K41 di Mozart; poi mi chiese di suonare ufficialmente al Festival l'anno seguente. Pochi mesi
dopo però morì e non se ne fece più nulla.
Quali altre figure sono state importanti nella Sua formazione di uomo e musicista?
Certamente Luciano Berio, che mi ascoltò a Salisburgo al concerto del 1989 dedicato ai migliori allievi di tutti i
corsi. Il destino volle che dopo di me dovessero eseguire la Sequenza per chitarra e lui fosse arrivato un po' prima,
in tempo quindi per ascoltare anche me. Si informò, venne a sapere che eravamo conterranei, e da lì iniziarono i nostri
rapporti.
Probabilmente cercava un pianista giovane, poliedrico, e con conoscenze di composizione (ho studiato fino al settimo
anno di conservatorio). Si è creato un bellissimo rapporto nel corso degli anni: quando andava da Roma in Germania per
tenere dei corsi non mancava mai di fare una tappa a casa nostra sopra Genova! Il progetto Bach-Berio, che ho suonato
un po' in tutto il mondo, è nato da lui e a me piace molto: pensi all'effetto di eseguire gli Encores dopo una Suite
Inglese! Poi facemmo il CD Decca «Berio Piano Works» che lui ha apprezzato moltissimo. Ancora adesso,
quando interpreto per esempio Bach, mi risuonano le sue parole nelle orecchie... Un altro uomo a cui devo molto fu Rudolf
Baumgartner, con cui lavorai a Lucerna con i Festival Strings Lucerne. Con lui cominciai a fare, oltre a Mozart, i
Concerti di Bach. Fu una grande opportunità di formazione, per certi aspetti molto diversa da quella con Berio: da un
lato una delle più cristalline e autentiche visioni storiche e classiche e dall'altro il pensiero di uno dei più grandi
compositori del nostro secolo. Il bello è che Berio mi diceva sempre di seguire il pensiero di Baumgartner e Baumgartner
quello di Berio! Sarà forse per questo che oggi il mio Bach viene definito dalla critica americana «Bach-Modern»...
Non dimentico, infine, Franco Scala, un'esperienza che è stata, per così dire, la ciliegina sulla torta. Il maestro non è
solo un grandissimo insegnante, ma è anche un formatore di uomini, è la persona che ti insegna anche a vivere in questo
nostro difficile mondo, che ti aiuta ad affrontare i momenti e le prove più difficili, che riesce a tirar fuori tutto
quello che hai dentro e - come per miracolo - valorizzarlo, farlo crescere... Ancora oggi, ogni tanto sento la necessità
di tornare da lui per chiedere, approfondire: magari prima di un grande concerto o per un pezzo nuovo.
Quando avvenne il passaggio da bambino prodigio a professionista?
E' stato certamente il momento di crisi più delicata, verso i quindici-sedici anni. Infatti, quando ero un bambino
(diciamo dai quattro-cinque anni) ascoltavo un motivo in TV, in un concerto, dalla Radio, mi sedevo al pianoforte e lo
ripetevo spontaneamente, con l'orecchio assoluto capivo, cantavo, ripetevo, senza problemi, veniva tutto miracolosamente,
incomprensibilmente da solo. Poi, a un certo punto ti rendi conto che tutto questo non c'è più, è come improvvisamente
sparito, ti sembra di aver perso tutto, di non riuscire più a suonare. Allora devi cominciare a ricostruirti tutto quello
che prima era spontaneo attraverso una ricerca più scientifica, partendo dalla storia, dallo studio incessante, rigorosissimo,
quasi maniacale. Berio, che mi è stato molto vicino in quel periodo, mi diceva che dovevo capire «che cosa c'è dietro
le note o che cosa voleva lasciare ai posteri il compositore». Così è nata in me la voglia di approfondire - con il
pensiero e la cultura di oggi - il lascito dei grandi compositori ed interpreti che hanno fatto la storia. Lezioni del
passato da vivere nella contemporaneità, rischiando anche di andare qualche volta controcorrente. Questa è stata la mia
salvezza, spero per sempre...
Cosa cambia nel suonare una musica con il compositore di fianco?
All'inizio è stato un problema molto grande, il linguaggio di Berio mi era del tutto estraneo, ma a poco a poco, eseguendo
più volte i Six Encores, la Sequenza per Pianoforte, ho capito come dovevo comportarmi. Berio mi ha insegnato lo stile con
il quale bisognava leggere la sua musica, il suo pensiero. E mi è rimasto in maniera netta. Sentendo però altri pianisti
(come Lucchesini, per esempio) che eseguono quelle composizioni, e lo fanno in modi molto diversi, sono giunto alla conclusione
che Berio desse indicazioni differenti a seconda della personalità dell'interprete. Faccio un esempio concreto: nel quinto
dei Six Encores, c'è un'indicazione di «pedale a piacere». Berio mi diceva di metterlo e tenerlo per tutta la
pagina, mentre a Lucchesini probabilmente suggerì di farlo senza pedale: evidentemente amava esaltare le diverse possibilità
interpretative.
Berio Le suggeriva quali compositori affrontare, sia storici che contemporanei?
Certamente sì! Prediligeva, naturalmente, i compositori innovatori e, ad esempio, riteneva Mendelssohn un minore, odiava
Paganini, mentre gli feci apprezzare la Quarta Sonata di Prokofiev, che pure non amava particolarmente. Apprezzava poi
l'avanguardia degli anni sessanta e compositori contemporanei come Fedele, Andriessen, Luis de Pablo.
Il pubblico recepisce bene la musica di Berio, oggi?
Generalmente sì, ma a piccole dosi o in luoghi dedicati alla musica contemporanea: a marzo, per esempio ho suonato a Madrid,
all'Auditorio Nacional de Musica, all'interno del ciclo «Bach Modern» composizioni di Bach e Berio accostate come
dicevo più sopra. E poi dovrei celebrare i dieci anni dalla morte di Berio nell'ambito del MiTo di quest'anno.
Ci terrei
veramente moltissimo. Anche per il rispetto e la grande riconoscenza che devo al maestro per tutto quanto ha fatto per me.
Quali le ragioni di vita di Andrea Bacchetti?
Vengo da una famiglia normale dalla quale fin da bambino ho imparato che montarsi la testa sarebbe stata la mia rovina. Quando
sono a casa studio tutto il giorno. Se sono in giro per il mondo sono costantemente alla ricerca di un pianoforte: tutto questo
è la mia ragione di vita. Lo faccio per capire, per comunicare, per emozionare, per parlare attraverso il pianoforte con il
pubblico. Quando poi, magari per colpa della stanchezza o di una giornata «no» (come capita, credo, a tutti), non
ci riesci, allora ci rimani male e ti sembra di aver rubato qualcosa, di aver perso un'occasione, di non aver saputo rispondere
alle aspettative del pubblico. Per questo mi viene spontaneo di scusarmi, lasciando trasparire la mia insoddisfazione.
Come è nato il progetto dedicato al repertorio italiano del Settecento?
Nel 2004 ci siamo seduti a un tavolo con lo storico della musica Mario Marcarini e Luciano Rebeggiani, direttore di Sony
Classical Italia, i quali hanno creduto fortemente in me e hanno capito che per fanni conoscere nel mondo occorreva una
strada diversa dal repertorio consueto, anche dalle Goldberg che suonavo e suono continuamente. Quindi abbiamo puntato su
musiche praticamente sconosciute. Voglio intanto sottolineare che il progetto ha attraversato un momento di crisi: servono molti
soldi per restaurare i manoscritti, per i viaggi, per la promozione, i CD costano e la gente li compra sempre meno. E per questo
bisogna fare un ringraziamento speciale alla Banca Carige, che ci ha sostenuto e senza la quale non potremmo proseguire.
Ora stiamo pensando di spostarci verso Hasse, quindi verso Napoli. Partiamo sempre - per ogni compositore - da un'imponente
quantità di musica da cui cerchiamo di distillare il meglio, quella più rappresentativa.
Cosa hanno in comune Cherubini, Galuppi, Marcello e Scarlatti - i compositori sinora incisi - a livello di scrittura per tastiera?
Si tratta di un Barocco tastieristico il cui capo-scuola è Scarlatti e la cui estrema propaggine è proprio Cherubini, una sorta
di Haydn italiano. Sono pagine apparentemente non troppo difficili dal punto di vista tecnico, che hanno tuttavia rischi di
altro tipo e in alcuni casi riflettono la cantabilità dell'opera italiana. Per quanto riguarda Cherubini, pensiamo di concludere
l'integrale per tastiera nel 2015, con i brani rimasti esclusi dal primo CD, che ha registrato un ottimo successo di vendite e
anche, per me inaspettatamente, di critica, anche a livello internazionale. Farà parte del nuovo disco una vera rarità come il
Capriccio pour le fortépiano.
Recensendo quest'ultimo CD dedicato a Scarlatti, il nostro critico Riccardo Risaliti è rimasto colpito dall'abbondanza di
abbellimenti inseriti: qual è il motivo?/b>
È vero che ho sempre avuto questa tendenza. D'altronde, quando si studia e si ripete per ore e ore una singola frase, la
tentazione di variarla è dietro l'angolo. Ma negli ultimi tempi mi sono molto limitato, pur amando improvvisare di sera in sera,
di concerto in concerto; e nel caso particolare disco scarlattiano credo proprio di non avere esagerato, anzi sono stato parco!
Gli unici abbellimenti si concentrano nei ritornelli. Anche quando abbellisco la musica di Mozart sono molto attento.
Ci sono dei colleghi, anche non pianisti, con cui ha scambi intellettualmente proficui?
Mi piace ricordare Rocco Filippini, che per me è come un maestro e con cui suono in duo da molti anni. Una bellissima esperienza,
anche dal punto di vista formativo proprio per la sua grande cultura. Poi Domenico Nordio, oppure l'ottimo soprano Gabriella Costa.
Di grande utilità formativa è stato anche il lavoro fatto con il Quartetto Prazak e il Quartetto Ysave, il Quartetto di Cremona.
Devo molto poi a tanti direttori, con cui lo scambio è più facile dal momento che non facciamo lo stesso lavoro. Mi piace pure
lavorare con i cantanti in ambito liederistico: ho fatto il Liederlereis, la Dichterliebe, la Winterreise, molto repertorio
francese. Non mi dispiacerebbe occuparmene di più.
Non ha mai avuto la tentazione di dirigersi da solo?
In Mozart no, ma i Concerti di Bach sono migliori senza un direttore, a patto che l'orchestra e la spalla siano di ottimo livello.
Sempre Bach... il Suo feticcio, d'altronde, sono le Variazioni Goldberg: perché inciderle cosi tante volte?
Ho avuto il desiderio di farlo perché la mia lettura è cambiata molto negli anni, e mi sarebbe dispiaciuto lasciare un'interpretazione
che non corrisponde più alla mia visione di oggi. Si tratta di un pezzo di grande virtuosismo strumentale, a cui ho lavorato per
anni e nel quale credo di avere raggiunto oggi il massimo delle mie possibilità. C'è in vista, fra l'altro, un'altra incisione
proprio per Sony.
Quali strumenti ama usare di solito?
Mi piace molto il Fazioli per la sua superba morbidezza di suono, il colore caldo e l'eccellenza del pedale tonale: larga parte
dei miei CD è stata registrata proprio nella Fazioli Concert Hall di Sacile, un'ottima realtà musicale e imprenditoriale. Ma certo
non disdegno gli Steinway. Mi è capitato anche di mettermi alla prova con strumenti d'epoca, ma non posso fare a meno di una meccanica
moderna con doppio scappamento; il cembalo, infatti, l'ho suonato solo per studio. Secondo me, tornando alle Goldberg, col pianoforte
moderno esse acquistano nel colore, nella timbrica, nel fraseggio, esce al massimo grado il potere della musica, il messaggio di Bach.
Di meglio non c'è niente. Da qui il discorso si potrebbe allargare alle questioni filologiche: dirò solo che io cerco sempre, quando
vengo accompagnato dagli archi, un suono morbido e cantabile, come i Festival Strings Lucerne degli anni che furono (d'altronde Rudolf
Baumgartner è stato il mio più grande maestro per il Barocco). Nel 2014 dovrei eseguire tutti i Concerti di Bach con una prestigiosa
orchestra italiana.
Quindi il repertorio italiano, Bach, Mozart. E poi, nel futuro? Magari Mendelssohn?
Ho eseguito i Concerti, ma non ne sono stato del tutto soddisfatto: credevo di cavarmela con la mia brillantezza di suono, con
l'agilità, ma mi sono accorto che serviva anche una potenza notevole. Certo, i pezzi più lirici come i Lieder ohne Worte sono adatti
al mio stile. Vorrei rifare le Variazioni di Franck, invece. Dal punto di vista discografico, invece, penso sia bene mantenere
un'identità. E dopo dieci anni di questo progetto evidentemente mi è stata riconosciuta una certa maturità. La Sony mi ha chiesto
infatti un'opera omnia di Bach.
Mi dica qualcosa su questo progetto.
Usciremo con un cofanetto all'anno, e, dopo le Suites francesi già pubblicate, il secondo - quasi pronto - è dedicato al Bach italiano,
in cui ci saranno tutte le composizioni con titoli italiani e le varie trascrizioni. Si tratta, in un certo senso, di una prosecuzione
della tastiera italiana, una dimostrazione, contro la teoria portata avanti dalla storiografia tedesca, dei rapporti di permeabilità
fra Bach e l'Italia. L'integrale sarà di venti CD circa e ogni cofanetto conterrà due o tre dischi: quindi lo porteremo a termine in
meno di un decennio. Intanto abbiamo appena finito di registrare ancora le Goldberg e l'idea è di realizzare un CD bonus in cui si
accosta la versione con ritornelli a quella senza. La visione più filologica possibile insieme alla mia idea attuale.
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