Andrea Bacchetti nella chiesa barocca di S. Maria Maggiore a Vercelli
Inusuale la conclusione, ieri sera sabato 23 maggio a Vercelli, del XVII Viotti Festival. Inusuale
per la sede: non il Teatro Civico, ma la chiesa barocca di S. Maria Maggiore, pur essendo il Civico
pienamente disponibile. Inusuale per il programma: non musica concertistico-sinfonica, ma per pianoforte
solo, assente la gloriosa Camerata Ducale. Inusuale per il congedo dall'affezionato pubblico (400 abbonati,
che per una cittadina come Vercelli è una cifra enorme): non il festoso saluto di Cristina Canzani e
Guido Rimonda, con il sacrosanto orgoglio di un nuovo traguardo raggiunto e la gioia dell'annuncio di
una prossima stagione ricca di proposte e di memorabili concerti, con la partecipazione di star del
firmamento internazionale della musica, ma un breve, asciutto discorso di P. Canzani e
un arrivederci ai prossimi appuntamenti estivi (peraltro ridimensionati rispetto al programma iniziale, per
volontà dell'amministrazione comunale) in un tono piuttosto dimesso. Che sta succedendo alla Vercelli
musicale e al Viotti Festival? Siamo, ahimé, alle solite tristi note di questi tempi: un'autorevolissima
fonte ci ha spiegato che la nuova giunta comunale ha operato drastici tagli nei finanziamenti alle attività
culturali lasciate in eredità dalla precedente e in particolare proprio al Viotti Festival, che per questa
stagione è riuscito in qualche modo a cavarsela grazie agli introiti derivanti da concerti in altre città,
ma in futuro ... In questi puntini di sospensione è contenuta la minaccia che la Camerata Ducale lasci
Vercelli, cioè che la migliore orchestra piemontese crei il deserto in un'area, il Piemonte orientale,
dove, soppressa a Novara la stagione cameristica, le occasioni di ascolto musicale dal vivo per il pubblico
diverranno a questo punto cosa rara. Il concerto di ieri, a ingresso gratuito, è stato dunque un segno di
protesta, che la Camerata Ducale con la sua assenza e il rifiuto di suonare nell'istituzione teatrale
cittadina «ufficiale» ha inteso mandare a chi ha (o dovrebbe avere...) orecchie per intendere.
Protagonista di questa serata è stato dunque una vecchia e simpatica conoscenza di queste parti,
quell'impagabile folletto della tastiera che è Andrea Bacchetti, con un impaginato monograficamente dedicato
a uno dei suoi autori "di baule", cioè J. S. Bach: il clou del programma erano le Variazioni
Goldberg, precedute dalla Toccata in Mi min. BWV 914 e seguite dalla quinta Suite francese, dal Concerto
italiano in fa maggiore BWV 807 e infine dalla seconda delle Suites inglesi. Bacchetti, chissà perché, ha
scelto di suonare tutti i pezzi di seguito, senza una frazione di secondo d'intervallo (prassi esecutiva
per fortuna poco diffusa nelle nostre sale da concerto e che personalmente ci trova perplessi), trasformandosi
in una sorta di prodigiosa macchina musicale dalle incredibili energie intellettuali e manuali. Ma Bacchetti
ha scelto di continuare a stupire il pubblico anche dopo la conclusione del programma ufficiale, offrendo
quello che crediamo uno dei bis più lunghi nella storia del concertismo: quaranta (40!!) minuti di pezzi di
Rameau, Couperin, Hasse, Scarlatti, Beethoven, anche questi suonati senza alcuno stacco tra un pezzo e l'altro,
sicché anche il più esperto ascoltatore immaginiamo abbia faticato non poco a capire cosa stesse ascoltando
esattamente ... (i nomi dei compositori, non le opere, li ha svelati lo stesso Bacchetti al termine del
concerto). La virtù principale, pubblicamente riconosciuta al pianismo di Bacchetti è la perfetta tornitura
del suono, lavorato con la precisione di un orafo, non freddo e astrattamente «tecnico», ma
animato da un delicato lirismo: un suono che si sgrana per ogni singola nota, anche nelle zone agogicamente
più veloci del pezzo (e ieri ci è parso che, soprattutto nelle Goldberg, il pianista genovese abbia scelto
tempi piuttosto rapidi). Qualità, queste, confermate una volta di più nel concerto di ieri sera, in un
ambiente, peraltro, dall'acustica non del tutto favorevole, che ha indotto Bacchetti a potenziare il volume
del suono, magari a discapito, talora, di alcune di quelle finezze timbriche di cui è maestro. Nel complesso
ne è uscito il Bach che più amiamo di Bacchetti: un Bach che, pur nella scrupolosa precisione dell'architettura,
suona sciolto e fluente nelle dinamiche e negli stacchi dei tempi, ben «squadrato», ma anche
espressivamente suadente. Il lunghissimo applauso del pubblico ha salutato alla fine una serata che, sia per
la singolarità della performance, sia per la qualità dell'esecuzione, sarà difficile dimenticare.
24 maggio 2015 - Bruno Busca